Il problema dei falsi (positivi?)

L’avvento delle pandemie che negli ultimi anni si sono presentate in maniera arrogante ha posto il problema dell’affidabilità dei test farmacologici di controllo. Che significano i termini falsi positivi e falsi negativi? E quanto realmente valgono?

Per usare un linguaggio meno intriso di gergo tecnico (informatici e medici ne sono consapevoli sacerdoti detentori…), stiamo entrando nel campo dei test duali, cioè test per i quali sono previsti solo due risultati opposti che si escludono a vicenda: [(sì, no), (positivo, negativo), (vero, falso), (Napoli, Juventus…sto divagando…).

Un falso positivo si registra quando un valore che “dovrebbe” risultare negativo (no, falso, ecc.) risulta invece (parliamo di statistica, quindi di valori attesi) positivo (sì, vero, ecc.).

Un falso negativo, al contrario, si registra quando un valore che “dovrebbe” risultare positivo (sì, vero, ecc.) risulta invece negativo (no, falso, ecc.).

Questa situazione, diffusissima, e vedremo quanto, produce, soprattutto nel campo sanitario, allarmi o miscredenza ma, in ogni caso, ingenera forti dubbi che possono rallentare la tempestività di terapie o interventi dovuti ovvero convincere a sottoporsi a cure non necessarie.

Ma quanto vale la probabilità di falsi? In questo ci aiuta il teorema di Bayes (tranquilli, si trova in tutti i libri di statistica, ma non vogliamo trattarne il formalismo, bensì soltanto utilizzarlo per valutare la probabilità di ottenere falsi (positivi o negativi, il procedimento è lo stesso).

Thomas Bayes, ministro presbiteriano, enunciò un principio (o teorema) che, una volta che si conoscano la percentuale di diffusione di una certa malattia (passiamo direttamente al caso pratico, abbandonando i concetti ostici di spazio degli eventi, probabilità condizionata, ecc.) e l’efficacia media del test di controllo della presenza o assenza della stessa malattia in un qualsiasi individuo, permette di calcolare la probabilità che il test sia veritiero o restituisca valori falsi (così da mitigare il diffuso allarmismo o l’incoscienza della miscredenza!).

La formula è ostica per chi non è pratico di notazioni statistiche, quindi la saltiamo direttamente e utilizziamo un esempio. Abbiamo a che fare con una malattia ipotetica (che chiameremo Morbo) e con un test che sia caratterizzato da un’efficacia ipotetica (Efficacia).

Ipotizziamo, per analizzare la formula, che il Morbo sia presente nella percentuale di 5 contagiati su 1.000 (cioè 0,5%) e che l’Efficacia del test sia il 99%, cioè una persona sana ha una probabilità su 100 di risultare malata. (In seguito indagheremo la variabilità di questi valori per analizzare quanto essi incidano sulle percentuali di falsi).

La formula che utilizzeremo (ripeto, si trova in qualsiasi libro di statistica…), con questi valori, diventa:

Il significato della formula è:

Da cui ricaviamo che, nelle condizioni esaminate (5 malati su 1000 e test efficace al 99%), la probabilità che il test becchi un vero malato è di poco superiore al 33%!!!

Ma quali sono i valori che ci farebbero stare tranquilli?

Vediamo che otterremmo facendo variare l’efficacia del test.

     EfficaciaInefficaciaProbabilità
95,7148%4,2852%10,0915%
98,0290%1,9710%19,9951%
98,8415%1,1585%30,0075%
99,2510%0,7490%39,9703%
99,4998%0,5002%49,9889%
99,6659%0,3341%59,9853%
99,7850%0,2150%69,9870%
99,8743%0,1257%79,9768%
99,9442%0,0558%89,9947%
99,9737%0,0263%95,0291%
99,9871%0,0129%97,5030%
99,9996%0,0004%99,9196%

Vediamo invece che otterremmo facendo variare la percentuale di malati.

         Sani      MalatiProbabilità
99,8878%0,1122%10,0029%
99,7479%0,2521%20,0151%
99,5686%0,4314%30,0170%
99,3310%0,6690%40,0031%
98,9981%1,0019%50,0482%
98,5067%1,4933%60,0123%
97,6996%2,3004%69,9789%
96,1175%3,8825%79,9959%
91,6739%8,3261%89,9914%
84,1253%15,8747%94,9191%
72,0603%27,9397%97,4610%
14,9093%85,0907%99,8233%

Questo significa che, per avere una buona certezza che il test non ci presenti falsi positivi, con relativi drammi, o si lavora con un test efficace a valori prossimi al 100% (saranno poi i soci di Big Pharma a valutare quanto costerebbe loro la ricerca di reagenti e protocolli affidabili o i laboratori di analisi l’utilizzo di reagenti freschi e ben conservati incontaminati…) oppure la presenza della malattia deve essere elevatissima (grazie, eh, lo immaginavamo anche noi…). La combinazione dei due fattori può essere significativa.

In definitiva, lungi da ritenere qualunque risultato di un test farmacologico di laboratorio poco affidabile (non è così…, credo…), una riflessione sul pericolo di avere un solo risultato potrebbe esporci a decidere sulla base dell’esito di una scommessa. E forse sarebbe meglio ricorrere alla strategia dei vecchi saggi, cioè affidarsi ad almeno 3 diversi esecutori di test e valutarne la convergenza dei risultati, altrimenti aumentare il panel dei laboratori da far intervenire. Per test su malattie minacciose, anche se i costi così cresceranno, forse ne dovrebbe valere la pena.

Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.

Febbre a 90°

Uno dei pochi film non celebrativi dei protagonisti del mondo del calcio ma che presenta una struttura narrativa robusta in quanto rinuncia all’esaltazione retorica dei ricchi calpestatori dell’erba a favore di una focalizzazione sulle storie dei comuni frequentatori dello stadio è Fever Pitch (distribuito in Italia con un anfibologico Febbre a 90°).

Il film si basa sul romanzo di Nick Hornby che è però molto più introspettivo e ha un approccio psicoanalitico sugli effetti deviatori delle priorità nella vita reale indotti dal tifo sfegatato. Il film narra le avventure di un insegnante inglese, acceso tifoso dell’Arsenal, alle prese con le scelte dettate dalla contemporaneità degli impegni, il lavoro, l’amore, un figlio in arrivo, in contesa con gli appuntamenti settimanali dei campionati.

Ma ne parlo per un altro motivo, essendo io stesso assolutamente e irreversibilmente catturato dall’interesse per il calcio. E’ il termine Arsenal che mi ha incuriosito e mi spinge a parlarne. Il nome della squadra inglese nasce proprio dal fatto che i fondatori fossero lavoratori dell’arsenale nel sobborgo di Woolwich a sud del Tamigi, nel 1886. E il nome con cui sono conosciuti i calciatori dell’Arsenal è “i Gunners” proprio per richiamarne l’origine di costruttori di armi da fuoco.

Arsenale deriva da un termine arabo che i Veneziani appresero durante gli scambi commerciali con l’Oriente e che significa “casa d’industria, casa del mestiere”, foneticamente “daras-sina’ah”. I Veneziani lo corruppero gradualmente in darzanà, arzanà, arzanàl, arsenàl, fino alla forma finale arsenale, lasciando al termine dàrsena il compito di specificare gli specchi d’acqua interni all’arsenale.

L’Arsenale di Venezia era “troppo avanti”.

Probabilmente (finché non verificheremo se anche nell’antico Egitto o nelle più remote civiltà alcune forme di organizzazione del lavoro – al di là dell’eccezionale disponibilità di manodopera dovuta alla pratica della riduzione in schiavitù degli sconfitti – erano antesignane dei princìpi moderni…) è stata la più importante organizzazione produttiva accentrata a totale integrazione verticale dell’epoca pre-industriale. E la catena di montaggio ne anticipava il paradigma di fabbrica dell’epoca industriale.

Non solo contava internamente fonderie, corderie, reparti per le alberature, le vele, armi leggere e pesanti, ma anche la tecnica del canale di allestimento che permetteva, ben prima di Adam Smith, di suddividere le attività operative in stazioni dove venivano eseguite le operazioni in sequenza in sincrono con l’avanzamento dello scafo. Produttività a livelli impensabili, se parliamo di 100 galee allestite in due mesi, e occupazione di decine di migliaia di addetti. La diga all’avanzata dei popoli dell’Est, culminata con la vittoria di Lepanto nel 1571, resta attribuita in gran parte all’utilizzo di galeazze prodotte a Venezia.

Una storia che abbraccia fama e secoli, a partire dal XII secolo. Perfino Dante, nel capitolo XXI dell’Inferno, dedica una dozzina di endecasillabi al racconto delle varie brulicanti attività di riparazione delle navi e l’uso della pece come paragone per l’aspetto di una delle Malebolge. 

E anche l’innovazione vedeva protagonisti gli Arsenalotti, per la realizzazione di nuove armi e tecniche produttive e logistiche di avanguardia, finché il naturale ciclo della storia mise in discussione l’equilibrio tra aree occupate, tecniche moderne, prodotti concorrenziali più avanzati e ne decretò, infine, la sconfitta.

Ma Ford, come per la diatriba non risolta Bell-Meucci sul telefono, non è stato il primo.

Il cugino più famoso e i binomi (II parte di 3)

Attenzione. Le pagine che seguono contengono formule ed espressioni. Le leggete a vostro rischio e pericolo. La Direzione non si ritiene responsabile del vostro tormentato rapporto con i numeri!

Riformuliamo la domanda in termini più tecnici e dividendola in due parti: se il premio più alto è in una determinata posizione, per esempio nel canale di posto 4 partendo da sinistra, (a) quanti sono tutti i possibili percorsi diversi attraverso cui una sferetta può raggiungere quella posizione, e (b) quanto vale la loro percentuale rispetto a tutti i percorsi possibili che si possono realizzare per raggiungere qualsiasi posizione?

Proviamo a spiegarlo ricorrendo alle formule che riemergono dalle nebbie delle lontane ore della Scuola dell’Obbligo. Parliamo dei Prodotti Notevoli, delle potenze di un binomio e della disposizione geometrica conosciuta nel 1500 come Triangolo di Tartaglia (che in realtà si dovrebbe chiamare Triangolo di Fontana, dal momento che l’autore, Niccolò Fontana, era detto Tartaglia per la sua pronunciata balbuzie; anche un personaggio del teatro comico napoletano aveva la stessa caratteristica, l’avvocato don Anselmo Tartaglia, noto per gli sconclusionati bisticci sillabici delle sue incomprensibili arringhe, ma questo ora non c’entra…..).

Il Triangolo di Tartaglia è una miniera di relazioni e informazioni numeriche. Probabilmente conosciuto già in Cina da prima del 1300, soggetto a lotte di riconoscimento di paternità che hanno visto protagonisti molti scienziati (anche Pascal era tra questi), è una disposizione geometrica dei coefficienti dello sviluppo di un binomio elevato a una qualsiasi potenza, cioè

Il binomio è un’espressione il cui valore dipende dal valore che assumono i suoi due componenti. Se scendiamo lungo le righe del Triangolo (riga 1 per n=0, riga 2 per n=1, riga 3 per n=2, ecc.) troviamo tutti i nostri coefficienti binomiali, calcolati ognuno come la somma dei due numeri sovrastanti della riga precedente (disposti come i pioli a quinconce…).

E la somma dei coefficienti di ogni riga (a sinistra della piramide bidimensionale ne è riportata la scala) è il valore corrispondente per ogni riga della potenza di 2 corrispondente a “n” (per l’applicazione nel conteggio dei bit gli informatici ne saranno per sempre riconoscenti…).

Come ci aiutano queste considerazioni con le sferette e i pioli? Una risposta per volta!

La potenza di un binomio si rappresenta con la formula di Newton (anche lui qui!)

in cui il termine tra parentesi, denominato “Coefficiente binomiale”, ha un significato nel Calcolo Combinatorio che si conosce bene nei giochi; è cioè il numero di possibili combinazioni che “j” elementi possono assumere in un insieme di “i” elementi, per esempio il numero di gruppi di 5 numeri diversi che si possono realizzare con 90 numeri (stiamo tutti pensando al gioco del Lotto?).

E il coefficiente binomiale rappresenta proprio il generico membro del Triangolo di Fontana-Tartaglia. Nella formulazione, “i” fattoriale (rappresentato con i!) rappresenta il prodotto di tutti i numeri consecutivi da 1 a “i” (lo stesso vale per “j” fattoriale).

Senza spaventarci troppo per la formula, vediamo più prosaicamente come usarla in pratica per valutare il numero di sestine che si realizzano con 90 numeri, formula che per il Superenalotto vale un numero di combinazioni pari a:

Cioè, per vincere, contiamo sullo 0,00000016% di probabilità di uscita della sestina che abbiamo giocato. Ma, per fortuna, e valga per i sistemisti, puntando appena 10.000.000 di Euro, si può aumentare la probabilità di vincita fino alla straordinaria e rassicurante probabilità di 1,6%, sperando inoltre di vincere da soli e di non dover dividere il montepremi! Risposta: Ma qualcuno deve pur vincere. Bah. Come se si giocasse a tombola…

Abbandonando quindi i sogni di ricchezza per l’immane sfida contro il Caso, torniamo a considerare che l’elemento di posizione “4” sull’ultima riga si ottiene con un’espressione in cui “i” rappresenta il numero di righe prima dell’ultima (cioè 10 = 11-1) e “j” il numero di posizioni distanti dalla posizione estrema nell’ultima riga (3 = 4-1).

Realizziamo quindi che ci sono 120 modi diversi per arrivare alla posizione 4 della riga 11 scendendo di riga in riga e spostandosi di una posizione a destra o sinistra.

E la probabilità? La risposta al prossimo (e ultimo) post di quest’argomento.

Il cugino più famoso e i binomi (I parte)

Nei palinsesti dei grigi preserali televisivi nei mesi dell’ora solare è comune imbattersi in quiz-show che distribuiscono premi in denaro, in dipendenza dalla capacità di rispondere a domande di “cultura” generale (!), ma anche sulla base del caso. Il caso è spesso rappresentato da palline che si fanno strada in discesa tra filari di pioli che le costringono a rimbalzare da una parte o dall’altra, fino a terminare la loro corsa aleatoria in uno dei canali al fondo, le cui etichette determinano l’entità del premio vinto.

Il gioco dello show “The wall” si basa su questo meccanismo di remunerazione, così come uno dei giochi de “Il prezzo è giusto” (il Plinko), e pure nella vita reale, a esempio in Giappone, molti serial-gamer sono incastrati nel meccanismo della dipendenza dalle infernali macchinette del Pachinko.

Tutti questi ricchi vincitori di beni materiali forse non sanno che devono la loro fortuna all’invenzione di un personaggio, meno famoso del suo stra-conosciuto cugino, ma che ha lasciato contributi importanti in vari campi della scienza sociale.

Il suo nome è Francis Galton, cugino di Charles Darwin, e riconosciuto esploratore di alcuni percorsi della conoscenza quali quelli legati ai concetti statistici della Regressione e dei Frattili, all’Eugenetica, alla Climatologia, alla Geografia, alle Impronte digitali(!).

In realtà Galton, partendo dagli studi statistici, stabilì un forte legame tra questi campi apparentemente disconnessi, indipendentemente dal suo originale eclettismo. Anche se alcuni suoi studi sull’ereditarietà, pur condotti con le migliori intenzioni statistiche, portarono altri a conclusioni pericolosamente distorte, tipo la deriva sulle caratteristiche razziali e sulla relativa superiorità, in concreto resta conosciuto perché per scopi didattici progettò una particolare tavoletta che rappresentò un grande contributo alla comprensione della distribuzione binomiale, incarnato nella Macchina di Galton (detta anche Quincunx, Galton Box o Bean Machine).

Ne sono disponibili ora versioni tascabili, ma era già in origine una tavola messa in verticale su cui erano piantati file di pioli sistemati in formazione di quinconce (la disposizione dei puntini sulla faccia 5 di un dado), cioè con i pioli sistemati in posizioni intermedie rispetto ai pioli delle file precedenti e seguenti. Da una tramoggia sulla sommità venivano fatte cadere centinaia di sferette che zampillando piovevano giù fino a raggiungere ognuna un canale in basso. La Macchina serviva a dimostrare come, all’aumentare del numero delle sferette in discesa tra i pioli, il modo in cui le sferette si disponevano configurasse una curva normale, cioè la curva di Gauss, che rappresentava il punto di sintesi tra la distribuzione binomiale e quella normale.

Perché binomiale? Perché ogni sferetta, urtando un piolo, può prendere una o l’altra tra due direzioni in discesa verso uno dei due pioli della fila più in basso, e giù fino ai canali in fondo. E di ogni percorso possibile può essere calcolata e dimostrata la probabilità.

Nel prossimo post, cercherò di spiegare, senza eccedere in tecnicismi, come si calcola la probabilità di diventare ricchi (!) in questo modo.     

Riprendo a scrivere

Mi devo scusare con tutti.

Un fastidioso problema tecnico mi ha impedito finora di aggiornare il blog e rispondere a chi ha avuto la cortesia e la pazienza di inviare messaggi.

Li ho autorizzati e pubblicati tutti, anche quelli con critiche.

Ne ho fatto tesoro.

Da oggi riprendo a scrivere e rispondere con continuità, sperando di dare un contributo più profondo alla discussione sugli argomenti che vorremo trattare.

Saluti

I dadi truccati e Jim Carrey

Nel 1994 è uscito sugli schermi uno dei più brillanti film (genere demenziale?…bah) comici della storia del cinema. In “Scemo e più scemo” Jim Carrey dà la dimostrazione più efficace della differenza tra probabilità e possibilità.

L’indimenticabile dialogo tra Lloyd Christmas (Jim Carrey) e Mary Swanson (Lauren Holly) merita un posto d’onore quasi quanto gli studi sulla teoria della probabilità di Abraham De Moivre (buon amico di Isaac Newton).

Lloyd: “Quante sono le possibilità che…un ragazzo come te e una ragazza come me…si mettano insieme?”

Mary: “Beh, Lloyd, è difficile a dirsi, insomma noi…non…”

Lloyd: “Dimmelo in faccia, voglio la verità nuda e cruda, dopo tanta strada fatta solo per vederti, Mary, almeno devi essere franca con me. Quante possibilità ho?”

Mary: “Uhm…Non molte”

Lloyd: “Vuoi dire non molte tipo…una su cento?”

Mary: “…Io direi piuttosto…una su un milione”

Lloyd: (Un grande sorriso si apre sul volto) “…Allora mi stai dicendo che…UNA C’E’?…..EVVAAAIIII”.

Passiamo ai pronostici sui dadi, per rendere pieno merito allo stupefacente contributo di Jim Carrey alla didattica.

Ognuna delle sei facce di un dado ha la stessa probabilità di presentarsi delle altre, cioè una su sei, 1/6, cioè il 16,67%.

Con due o più tiri le probabilità di avere sempre la stessa faccia cambiano e si riducono, perché il numero di combinazioni possibili aumenta.

Con cinque tiri di dado, la probabilità che si presenti ogni volta la stessa faccia, a esempio si presenti 5 volte “sei”, si calcola con:

cioè 1,3 su 10.000, cioè una su 7.776..

Ma se avessimo il sospetto di avere a che fare con un dado truccato e volessimo smascherare un eventuale baro che tirando il dado ottenesse 5 volte “sei”, ci rendiamo conto che avremmo una probabilità pari a circa 0,013% di confondere una possibilità con una certezza? 

Il buon Lloyd avrebbe avuto una possibilità di ottenere 7 volte “sei” molto maggiore (una su 279.936) di quella di mettersi con Mary.

Jim, sei un grande!

La Legge Dei Grandi Numeri (II parte)

La curva di Gauss rappresenta una conoscenza collettiva che si estende in tutte le parti del globo.

Mentre noi Italiani raffiguriamo sulle banconote i nostri monumenti, i Tedeschi, più pragmaticamente, avevano reso onore a questo contributo alla Scienza dei Numeri già sulla banconota da 10 marchi (prima che il suo valore diventasse 10 euro!).

L’utilizzo della curva di Gauss (detta anche “a campana” – “bell curve” per gli anglofoni) è diffusissimo. Rappresenta il modo nel quale si distribuiscono le probabilità che un qualsiasi valore si presenti all’interno di un gruppo di rilievi di una data caratteristica.

A esempio, rappresenta il modo nel quale si distribuiscono le altezze di un gruppo di studenti del Politecnico di Napoli, la lunghezza delle ali delle farfalle nel bosco di Capodimonte, il peso di una pizza Margherita il sabato sera, ecc.

Considerando la sua denominazione di Curva Normale, il suo utilizzo di strumento di confronto si esalta: rappresenta il modo nel quale un fenomeno che sia lasciato libero di manifestarsi senza condizionamenti sistematici produca i suoi effetti casualmente; cioè è utile quando la curva delle probabilità del fenomeno che si esamina non è Normale, perché fa capire che le modalità con le quali si presenta un evento hanno una causa sistematica di distorsione e si viene spinti a ricercare tale causa.

E i Grandi Numeri?

Partendo dalla considerazione che questo metodo si applica a fenomeni dei quali non si ha addirittura la conoscenza della numerosità della Popolazione (in Statistica significa il totale delle osservazioni) per cui le grandezze significative (Media, Mediana, Moda, Scarto Quadratico medio,….. e mi fermo, avendo già perso metà dei Lettori…) non sono calcolabili facilmente come il numero di combinazioni di un Terno o un Ambo), si introduce il discorso del Campionamento. Si procede cioè ad analizzare le caratteristiche di un gruppo ristretto di elementi (il Campione) per estendere le caratteristiche risultanti all’intera Popolazione.

Arbitrarietà pericolosissima, perché tutto dipende dal Caso che domina la maniera nella quale selezioniamo gli elementi del Campione, la sua numerosità “n” (il numero di elementi), le condizioni di esclusione e inclusione, e così via. E’ ovvio che si cerchi in tutti i modi di limitare la possibilità di errore, aumentando la numerosità del Campione e, soprattutto, ripetendo più volte il processo di Campionamento con gruppi della stessa numerosità, ma nelle stesse condizioni, per conservare le medesime modalità di probabilità che i valori si presentino.

Ecco che entra in gioco la LDGN, o Teorema di Bernoulli. I Campioni possono provenire da aree diverse della Popolazione, e per ognuno dei Campioni si calcola la Media (non solo quella, ma ormai siete rimasti in pochi, quindi non nomino nemmeno le altre grandezze in gioco). Quindi ci si aspetta che le Medie dei Campioni abbiano valori che possono essere anche abbastanza distanti tra loro. E allora proviamo a limitare la Forza del Caso calcolando la Media delle Medie (più altre caratteristiche innominabili…).

Ebbene la LDGN afferma che, aumentando sempre di più il numero di Campioni di numerosità “n”, la Media sperimentale che se ne ricava tende a rappresentare la Media vera! Cioè, all’infinito, tutto trova la sua vera Ragione d’Essere.

Tutt’altra cosa che giocare i Ritardatari! 

Desidero caldamente ringraziare con stima “infinita” i due amici che sono rimasti a leggere fino alla fine.

L’illusione della Legge Dei Grandi Numeri

L’illusione della Legge dei grandi numeri (prima parte)

Quante volte si sente dire: “per la legge dei grandi numeri prima o poi doveva succedere!”

E quanti scommettitori del Lotto si fidano di questo principio (!) aspettandosi che prima o poi la fortuna si decida a fare il proprio dovere saldando i conti nei loro confronti. La logica di giocare i numeri “ritardatari” si basa sull’aspettativa che “prima o poi” quei numeri si presenteranno.

Mi dispiace dare a questi aspiranti membri dell’insieme dei prossimi alla disillusione una pessima notizia: la probabilità che un numero ritardatario esca nell’”Estrazione del Lotto” dopo 100 settimane è ESATTAMENTE la stessa di quella che hanno nella prima, nella seconda, nella terza, ecc. ecc. , cioè il 5,55%!

Si arriva a questa percentuale, senza troppe angustie, calcolando che le cinquine “vincenti” che contengono un dato numero (in questo caso il nostro ritardatario su un’estrazione di cinque numeri tra 90) sono 2.441.626. Le cinquine totali che si possono realizzare con i 90 numeri sono invece 43.949.268. Il loro rapporto ci permette di calcolare la probabilità che nella settimana in cui investiamo speranzosi i nostri euro riusciamo a beccarne una (non è complicato ma noioso calcolare questi valori, e se ne valesse la pena potremmo ritornare a parlarne…).

E poi vinceremmo una cifra ingiustamente ignobile, 11,23 euro per ogni euro giocato, dal momento che il gioco del Lotto è assolutamente “iniquo”: in un gioco onesto si vince un valore corrispondente al numero di combinazioni svantaggiose che si sfidano, dovremmo cioè vincere il valore corrispondente al numero di combinazioni in cui saremmo sconfitti, l’altro circa 94,44% di cinquine in cui il nostro numero non c’è! E questi numeri sono SEMPRE gli stessi, in ogni Estrazione!

E allora, da dove nasce questa distorsione? Da una errata interpretazione della formulazione della equivocata legge, che non si applica a questi casi (lo so, è una novità…).

Ma ho preso già troppo spazio, e non voglio esaurire la vostra pazienza che, nell’affrontare la statistica, ha comprensibilmente una durata minima.

Ma nel prossimo post darò più spazio all’interpretazione un po’ più rigorosa della LDGN (siete quindi già preavvisati…).

Partiamo dal fertile campo di riso

E’ comune, quando si racconta la storia della nascita della Toyota, già da un po’ la prima azienda produttrice di auto al mondo, sorprendere con la storia della scelta del nome Toyota.

Il perché il fondatore Sakichi Toyoda, il cui nome si traduce in “fertile campo di riso”, designato in Giappone con il termine di Re degli Inventori a causa della realizzazione di numerosi dispositivi e brevetti che avevano arricchito il già innovativo telaio in legno, abbia voluto, insieme con il figlio Kiichiro, sostituire il nome della famiglia con un termine leggermente differente, affonda nella leggenda e nel mito, ma ha fondamenta precise.

A metà degli anni Trenta Kiichiro, in seguito a ripetute visite negli Stati Uniti, volle aprire nuovi mercati e affrontare nuovi promettenti business credendo, convinto dal padre, nello sviluppo dell’auto e volendo replicare, contestualizzandolo però in una terra di risorse infinitamente inferiori, il percorso di Ford e General Motors. Fondò quindi la Toyota Motor Company, con un nome che permettesse la sua differenziazione da quello della famiglia. 

Il nome fu trovato lanciando una sorta di campagna per la ricerca di una nuova designazione. In realtà il nome Toyota si pronuncia meglio di Toyoda (per gli occidentali, naturalmente…), ma il motivo principale della scelta è nella scrittura Katakana:​​​​

Per noi occidentali la differenza non può essere colta, se non con l’informazione che Toyota si completa con otto tratti di pennello. OTTO, per gli Orientali, è il numero del Buon Auspicio.

Benedire un’iniziativa con la presenza del numero otto è garanzia di buona riuscita. Non a caso le Olimpiadi estive di Pechino furono maniacalmente organizzate e ne fu monitorato il trascorrere del tempo mancante alla cerimonia d’apertura (la presenza di countdown sui muri di numerosi palazzi di Pechino ne è buona prova) perché iniziassero alle ore 08:08:08 p.m. del giorno 08/08/08 ! (E noi Napoletani saremmo poi superstiziosi!)​.

Ma c’è di più, e non so fino a che punto Kiichiro se ne rendesse conto: nella numerologia esoterica il numero otto rappresenta la grande fortuna che accompagna le nuove iniziative, la Grande Madre generatrice e la continuità eterna, la nuova vita dopo la morte.

È il simbolo dell’infinito coricato su un fianco, ed Escher eternò il simbolo del nastro di Moebius con una arcinota e fantastica rappresentazione simbolica.

Che cosa si vuole di più per far funzionare bene le cose?